martedì 29 novembre 2011

Etnofiction: il flop di un grande autore?

Mi ero ripromessa che non avrei mai più messo piede a Roma, che non mi piace, ma come spesso capita a chi non ha l'aeroporto nella propria città, il volo del viaggio che stavo per intraprendere partiva da Roma Ciampino.
Traversata dello Stretto  a piedi e poi treno di notte. Nella solitudine più totale ad immaginare cose parlare nel sonnacchiamento ed evocare immagini di chi spesso sogna e fantastica tra se e se. 
Catapultata nella capitale in anticipo fantozziano decido di ottimizzare il mio tempo passeggiando per la città, tra cose grandi grandissime, carabinieri sulle scale, stivali sui pantaloni, sguardi vuotissimi e più soli di me. Una cosa che c'è a Roma e non nella mia città è la Feltrinelli, ed entro per comprare un libro che non ho più e di cui ho già parlato, "Non Luoghi" di Marc Augé, e mi lascio affascinare da un'altro libro dello stesso autore "Diario di un senza fissa dimora" edito da Raffaello Cortina editore.
Mi convince subito la cosa del senza fissa dimora e poi non mi aspettavo che potesse deludermi Augé che ho sempre stimato. Questo è il più tipico esempio di pregiudizio che si possa fare, un grande intellettuale che ha scritto delle cose giuste è ormai nel tuo olimpo celebrale e te ne andrai sempre pensando che, senza macchia e senza paura, non potrà mai sbagliare.
Il libro lo leggo tutto nelle tre ore di volo, libro che esordisce descrivendo il termine etnofiction che dice di aver inventato lo stesso Augè, e che ha la pretesa folle di voler conciliare il saggio con il romanzo, che da sempre non sono mai andati di buon accordo...
Una miriade di possibilità hanno attraversato malignamente la mia mente, l'autore ha esautorato ogni argomento ed essendo ormai diventato un giocatore di poker, si mette a scrivere qualunque cosa, tanto se la comprano, ed io l'ho aiutato in questo. L'autore non sapeva come giustificare la freddezza di una cosa che ha intenti quasi goliardici, si inventa così la storia dell'etnofiction, che solo il termine mi fa pensare a "Cento vetrine", e mi intristisco. Non è così brutto il libro, solo che è inutile. Un mucchio di parole scritte, ma non aveva necessità di fare un analisi di questo tipo in questa maniera, avrebbe invece dovuto approfondire saggiamente l'argomento, come saprebbe fare. Il risultato? Quest'etnofiction non è ne un romanzo ne tanto meno un saggio, somiglia comunque di più ad un romanzo. E quindi ne deduco che forse l'autore non aveva abbastanza informazioni per scrivere un saggio ed ha così voluto imprimere le proprie considerazioni sull'argomento attraverso questo libro. E così, che dire? 
Lo regalerò a qualcuno, anche se, che figura ci faccio? Uno non regala un libro, che poi quello a cui lo regali lo legge e ne discutete insieme poi, e scopre così che ti faceva schifo, e quindi comprenderà così che si trattava di riciclo. 
Non succede mai che regalo libri io, tra l'altro. 

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